‘Cross Street’ dal muro alle tele, l’insopprimibile legame dell’arte con l’amore e la rabbia rivoluzionaria
‘Cross Street’ a cura di Paulo Lucas von Vacano è una mostra-piattaforma culturale che, al MACRO – Museo d’Arte Contemporanea Roma, ripercorre le principali tappe del Writing e della Street Art, tirando le fila di un clamoroso fenomeno artistico e mediatico.
Si narra che la fanciulla di Corinto sia stata, nell’antica città greca, una tra le prime disperate street artist.
Essa, disperata e inconsolabile, tutte le sere, prima della partenza del fidanzato, lo ritraeva sulle pareti alla luce di una lanterna, per conservarne la presenza durante la sua assenza.
Il padre, il vasaio Butade, poi, dava corpo e materia a quelle linee della figlia con l’argilla riproducendo anche lui il calco del volto dell’innamorato.
La pittura è presenza necessaria per un’assenza che si prospetta insuperabile.
È segno, è impronta bidimensionale ma, attraverso un ulteriore passaggio può diventare materia, tridimensionale, diventa scultura.
Tutti i racconti sulle origini dell’arte hanno qualcosa di struggente; eppure hanno anche qualcosa di estremamente vitale, come gli uomini anonimi imprigionati nella caverna platonica.
La magia delle immagini sulle caverne preistoriche fa pensare a un’insopprimibile esigenza di rappresentare la vita.
Manca la luce e mancano i mezzi, eppure il primo uomo si ostina a tracciare dei disegni.
E’ sempre stato così. Nel passato e nel futuro l’arte s’intreccia con l’ombra e la proiezione di un indissolubile legame d’amore, che dai muri precipita più tardi sulle tele.
E’ lunghissima la storia tra l’arte e il muro. Secoli e secoli di una pittura urbana, prima che museale.
Ancor prima delle tappe degli ultimi quarant’anni dobbiamo ricordare gli affreschi del Medioevo, la tela-muro simbolica Guernica di Pablo Picasso, le superfici tattili di Alberto Burri, i muri di Antoni Tàpies e gli Ostaggi di Jean Fautrier, e ancora: dobbiamo ricordare Jasper Johns che mima su tela la faticosissima tecnica a encausto; Jean Dubuffet sempre interessato a tutto ciò che si trova ai margini storici e concettuali dell’arte; Cy Twombly amplifica e santifica lo sciocco graffito (Olympia, 1957), prendendosi gioco del grande muralismo messicano – rappresentato da una triade: Diego Rivera, Josè Clemente Orozco e Alfaro David Siqueiros – e dell’Espressionismo Astratto.
- Nascono i graffiti americani grazie a un fattorino di nome Demetrios, che inizia a disseminare il suo nome d’arte – TAKI183 – nei luoghi in cui effettua le consegne. Il suo tag è scritto con il Magic Marker in semplici caratteri maiuscoli: l’importante è il tratto.
Da questo momento, centinaia di seguaci inizieranno a tappezzare New York di scritte, dando vita a un vero e proprio mondo di writers.
Il genio di Warhol – un visionario dell’arte che aveva capito tutto, o quasi, del nuovo “potere” e “valore” della comunicazione, dei media e dell’arte, nel mondo della sua contemporaneità – sul viale del tramonto, fa appena appena in tempo a cedere il testimone a Jean-Michel Basquiat, che prima ancora di diventare il re di Soho è stato l’indimenticabile poeta dei muri newyorkesi noto come SAMO©.
Decenni di rabbia rivoluzionaria americana, in termini di ingiustizia sociale, emarginazione e discriminazione, producono un’arte urbana diventata planetaria e, in parte, ancora illegale e clandestina.
Un’arte effimera, libera in tutto il mondo nelle sue forme: dal Writing, ai Graffiti, dal Muralismo alla Street Art, che influenza profondamente l’immaginario collettivo e oggi sempre più contamina i campi della moda, della musica, del cinema, la fotografia, fino alla pubblicità lasciandosi al contempo contaminare da essi.
I muri di una città mutano in continuazione! L’urgenza di questa forma d’arte – la cui essenza risiede nei concetti di non-eternità e di non-trasportabilità: può essere cancellata, coperta o ridipinta – è controcultura che sgorga dal basso, spontanea, immediata e urlata.
Nel 1986 Keith Haring realizzò un graffito lungo 300 metri sulla parte occidentale del muro di Berlino. Non potendo abbattere il muro, Haring tenta di distruggerlo, oscurandolo, camuffandolo, dipingendolo.
Se pure il suo murale non fosse stato coperto dai graffiti di altri writers, non sarebbe comunque sopravvissuto. E noi siamo qui, oggi a raccontarne oggi. Davvero non è restato nulla sul quel muro, e nella memoria culturale, dello sforzo creativo – a sfondo sociale – di Haring?
A distanza di vent’anni sono iniziate le incursioni di Bansky (e di altri) alla West Bank Barrier, l’immondo e moderno muro del pianto che Israele ha eretto in Cisgiordania. Anche in questo caso, non potendolo abbattere, Bansky ha tentato di indebolirlo, aprendovi delle crepe…
Alcuni paesi, UK e USA in testa, hanno condotto una vera e propria guerra a quest’arte di strada -dove la “strada” è il luogo-non-luogo dove accade la vita reale – in opposizione alla non-vita reale dei “palazzi”. Perseguita e perseguitata come un reato criminale a tutti gli effetti.
La maggior parte delle opere non è più visibile. Non solo perché i graffiti sono stati rimossi da qualche affarista dell’arte per far quattrini, ma soprattutto perché sono stati punitivamente ed esemplarmente cancellati.
Questi bistrattati artisti dei muri hanno portato anche a Roma il loro amore e la loro rabbia e, soprattutto a Tor Marancia o a Casal dei Pazzi, rivestito di bellezza alcuni skyline di cemento, cercando di sanare lo scempio causato dai palazzinari degli anni settanta, che a Roma non sembrano essere finiti mai.
Al MACRO – Museo d’Arte Contemporanea Roma, molte sono le opere provenienti da tutto il mondo, per rappresentare 40 anni di arte urbana nella mostra Cross the Streets, che porta nel Museo una piccola parte di sognatori, di guerrieri e di diversi che hanno scelto di usare le strade come gallerie e i muri come tele.
“La rivoluzione avviene quando la strada entra nel museo e il museo si trasferisce nella strada. Chi sopravvive alla strada governa il mondo!” recita infine questo progetto che vale la pena di visitare dal 7 maggio al 1 ottobre 2017.