DI CARLO MAZZACURATI, regista
Roma, il Cinema ed Io… (appunti di lavoro) a cura di Sergio Illuminato, edito nel 1993 dal Quotidiano Paese Sera. Interviste alle principali personalità del mondo del cinema che restituiscono uno spaccato della società degli anni ’90.
Al cinema ci sono arrivato per un bisogno naturale di raccontare che fin da piccolo ho sentito dentro di me. Sono passato dal farlo come un gioco al farlo come un lavoro, dando il tempo alla passione che da principio aveva mosso il mio interesse, di assumere dentro me maggior coscienza.
Tra il ‘77 ed il ’79 ho lavorato a Padova per un cineclub, occupandomi della programmazione. Il cineclub era fornito di una piccola cineteca e di una moviola, e grazie a ciò ho potuto vedere e studiare moltissimi film; la mia formazione cinematografica è cominciata così.
Il mio primo vero lavoro nel cinema è avvenuto in occasione della realizzazione di un piccolo film autofinanziato, “Vagabondi (1979)”; quell’esperienza l’ho vissuta in ogni sua parte: dall’ideazione alla produzione e, sia pure approssimativamente, mi è servita per capire cosa vuol dire “fare” un film.
Frattanto stavo concludendo gli studi universitari al Dams di Bologna ed era mia intenzione fare la tesi di laurea sulla “sceneggiatura”; fu in quell’occasione che, per la prima volta, pensai di recarmi a Roma, con l’intento di riuscire a contattare gente di cinema.
Di Roma posso dire che è una città capace di accogliere con facilità. lo ho avuto qualche problema iniziale, ma lo attribuisco alla mia scarsa capacità di comunicare, e di adattarmi ai cambiamenti.
A Padova, nella mia città, non stavo male; mi sentivo costretto a lasciarla perché lì non c’erano le condizioni, gli strumenti per fare quello che mi interessava. A lungo ho vissuto il disagio di non saper più dove abitavo, dov’erano i miei riferimenti, vagavo su e giù tra Padova e Roma senza riuscire a decidere dove fermarmi definitivamente.
In verità ancora oggi, dopo quasi dieci anni di permanenza in questa città, mi accade di non sentirmi nel posto giusto.
Ad ogni modo Roma, a differenza di altre grandi città, è un luogo che non respinge, che consente un certo adattamento, offre possibilità varie di inserimento; fondamentalmente è una città in cui non ti senti estraneo, dove la gente non ti fa sentire diverso.
Vivendo la città ho potuto a lungo osservarla e ne ho tratto una mia idea. Parlo non solo della Roma entro le mura, ma di quell’altra Roma, quella periferica che sinceramente mi ha interessato e stimolato molto di più, al punto di ritenerla molto adatta a contenere la storia che avevo in mente di raccontare, sia nei luoghi che nei personaggi.
Il film di cui parlo è “Un’altra vita”: racconto dell’incontrarsi, del cercarsi, del perdersi in una realtà come la Roma delle periferie. Il film parla di solitudini, di gente che pur vivendo molto vicina fisicamente, in realtà è sola. Essere soli in mezzo al deserto è una condizione naturale, una scelta; ma sentirsi soli in un luogo popolato diventa estremamente drammatico.
E così accade nel film, dove i personaggi, pur dividendo delle esperienze comuni, sono molto diversi tra loro, lontani, e ciascuno a suo modo è solo.
La mia intenzione era di raccontare che cosa è diventato vivere nelle aree urbane che fino agli anni ‘60 erano chiamate borgate. Se vogliamo fare un paragone col cinema di trent’anni fa che ne raccontava la vita, bisogna semplicemente constatare che quel mondo non esiste più, è un luogo altro, dove i personaggi da raccontare sono assolutamente diversi.
È diventata una periferia anonima, astratta, ripulita, di una ripulitura che ha un odore quasi cimiteriale; c’è il senso di una sorta di benessere, ma è solo apparenza che maschera un Vuoto enorme, tangibile.
È la rappresentazione della perdita dell’innocenza, la stessa drammatica esperienza vissuta dai personaggi del mio film, che finiscono con l’essere inglobati dalla nevrosi Comune, dal tremendo senso di omologazione ormai avvenuta. Quella omologazione priva di vita che, con tanto anticipo, Pier Paolo Pasolini aveva vaticinato in modo lucidamente agghiacciante.
Le aree periferiche che ruotano intorno a Roma sono cresciute al punto di essere oggi delle vere e proprie città assolutamente autonome ed autosufficienti, che orbitano intorno al centro di Roma, che rappresenta, per chi vive nelle aree limitrofe, un luogo di archeologia contemporanea da visitare il sabato e la domenica, una specie di mercato di vestiti e, se si è fortunati, luogo privilegiato dov’è possibile vedere le facce rese famose dalla TV Continuando a muoversi verso l’esterno, al di là del raccordo anulare le tematiche si esasperano, esistono realtà urbane come Tor Bella Monaca, di recentissima costruzione, dall’astratto sapore di luogo “residenziale” dove però è impossibile risiedere, vivere. Non esiste niente. Ai piedi di palazzi dall’architettura avveniristica vi sono negozi che non si capisce se aprono o no, saracinesche sventrate, le famiglie abitano i piani superiori di queste astronavi oggi atterrate in quel punto della campagna romana.
Non esiste relazione con la città, spesso c’è solo una strada dissestata dove passa un autobus ogni ora e mezza che collega quel luogo a Roma.
Cosa dire del Corviale? Un esempio per tutti. È importante andare a visitarlo, si tocca con mano il fallimento di una ideologia architettonica, per di più di sinistra. In quell’edificio è rappresentata l’ipotesi della città palazzo. Andarci vale più di qualsiasi commento: sembra Beirut o Sarajevo, per essere più attuali. Cemento armato arricchito da non si sa che tipo di decori; panchine rotte in “Via delle Ginestre”. Le strade hanno nomi che fanno tristezza, in quel luogo sono accolti i respinti. Ciò nonostante, le donne riescono a rendere umani i luoghi dove vivono, e ad un tratte ti sorprende, in tutta quella desolazione, vedere su un davanzale il colore dei fori piantati in un vaso.
Oggi è difficile congelare la realtà in una piccola storia esemplare, così come poteva accadere nel cinema neorealista, tutto si è complicato. Lo sforzo dovrebbe essere di capire come sta la gente e cercare di raccontarlo. Quando faccio un film, la mia, intenzione, è cercare di essere dentro il sentimento di quest’epoca. Spero di riuscire a fare film sempre più identificabili con un carattere. Nel cinema dei nuovi registi credo che l’impegno nell’invenzione delle storie sia insufficiente, forse la fatica di fare un film è tale che alla fine ci si occupa fondamentalmente dell’aspetto economico e, estenuati dal gran da fare, si finisce col dimenticare quel che si voleva raccontare; spesso i film non hanno un periodo preparatorio do di pensiero adeguato, e invece è lì che nasce il senso di un progetto.
Ma il nuovo cinema italiano ha anche dei meriti, il più importante a mio avviso è la felice tendenza a riproporre temi che riguardano la nostra realtà, e a quanto pare è un ritorno che il pubblico per fortuna riconosce e gradisce.
lo sono cresciuto cinematograficamente negli anni ’70 non identificandomi mai con nessun film italiano, perché non avevano un’identità; i film italiani di allora erano assolutamente senza luoghi, senza tempo, senza personaggi che assomigliassero alla realtà. Spesso mi è capitato di identificarmi con film di altri paesi, per esempio con il cinema americano che, nonostante parlasse di luoghi così distanti, emotivamente era molto più vicino alla mia generazione.
La nuova tendenza credo che riavvicinerà il pubblico al cinema, con un gran beneficio sia per il mercato che per le idee. Anche se fare pronostici è piuttosto difficile poiché il pubblico è la cosa più eterogenea che esiste, ci sono tanti pubblici per tante proposte. E’ un po’ diminuito e, cosa grave, si va adattando all’abbassamento della qualità; quello stesso pubblico che una volta aveva buon occhio per il racconto, per la qualità dell’immagine… Prima del film” Un’altra vita” non avevo mai girato a Roma e devo ammettere che delle particolari difficoltà ci sono, la gente per esempio qui sa cosa stai facendo ed ha imparato a chiedere molti soldi dando in cambio pochissimo aiuto.
Cinecittà non mi ha mai attratto come luogo mitico del cinema, anche perché la mia generazione non è cresciuta pensando che il cinema venisse da lì.
Il cinema italiano più’ bello è stato un cinema fatto per strada. Certo la prima volta che ci sono andato, come avviene a chiunque per qualcosa di cui ha sentito tanto parlare, sono rimasto a guardare pensando di vedere scaturire dai muri chissà quale visione. Invece per il film “Un’altra vita” mi è capitato di lavorare otto mesi a Cinecittà, tra preparazione, riprese di qualche scena, e montaggio. E mi ci sono affezionalo!
A differenza di Roma è un luogo disteso, aperto. Mi sono affezionato ai suoi pini marittimi, al profumo di pineta: stando lì mi accorgevo del cambio delle stagioni, cosa che a Roma solitamente non accade. E dopo questa felice esperienza, la mia opinione è cambiata; spero di poter lavorare ancora a Cinecittà, mi piace, li esiste una realtà artigiana all’interno della quale mi sono trovato bene.
Credo che lo spirito corretto nel lavoro del cinema sia quello dell’artigiano che cerca sempre, nella pratica, di migliorare il proprio mestiere. Ed il cinema italiano nel suo aspetto migliore è una grande bottega artigiana, così come, quando si esprime al peggio, vorrebbe essere un’industria, ma non lo è.
A proposito della Roma che fa o meno cultura, penso che la città non sia collegata ai circuiti internazionali, come una capitale meriterebbe di essere. Il nutrimento culturale della gente è stato trascurato da chi se ne sarebbe dovuto interessare.
Roma è lontana ed isolata rispetto ad altre capitali europee. Qui le persone che si occupano di cultura, si incontrano solo per caso, mi sembra che la tendenza sia all’isolamento. La chiusura tra i vari mondi è un brutto sintomo; proprio di questi anni, e di conseguenza anche chi dovrebbe “fare cultura” è a suo modo isolato. Sarebbe importante invece che ci fossero circolazioni di energia, di idee. Non esistono luoghi d’incontro, io ne sento la mancanza.
Fino a poco tempo fa, per quello che ne so, c’erano luoghi più di moda che di circolazione di idee, per cui un po’ tutti spaventati da questo hanno teso ad evitare di frequentarli. Leggevo qualche giorno fa che in Germania alcuni scrittori, in questi giorni di ricorrenza delle tremende faccende che hanno segnato l’inizio del nazismo, sono andati nei luoghi dove vivono gli emarginati, e hanno letto pubblicamente le loro opere con l’intento di dimostrare, in qualche modo, un’adesione, una partecipazione.
Quest’atto esprime quanto meno il bisogno disperato di entrale in relazione con la realtà che li circonda, con le cose che succedono.
In Italia non accade facilmente che degli artisti prendano iniziative simili e se accade non avviene mai in modo spontaneo, forse perché altrove si vivono mutazioni epocali che noi non vediamo concretamente. Qui l’unico luogo di socialità e di scambio di idee sono i giornali e la televisione, il che mi sembra davvero troppo poco.