DI ENZO MONTELEONE, sceneggiatore
Roma, il Cinema ed Io… (appunti di lavoro) a cura di Sergio Illuminato, edito nel 1993 dal Quotidiano Paese Sera. Interviste alle principali personalità del mondo del cinema che restituiscono uno spaccato della società degli anni ’90.
Sono di Padova e per me venire a Roma è stato necessario perché il cinema si fa qui: chi sceglie questo mestiere in Italia non ha alternativa. Ho cominciato ad occuparmi di cinema a Padova, dove con degli amici, tra cui Carlo Mazzacurati, gestivo un cineclub.
Il cinema lo vivevamo da affamati consumatori e da organizzatori culturali. Organizzavamo rassegne di Wenders, Scorsese, sul cinema tedesco, su Pellini…è stata la nostra scuola. Il cinema lo vivevamo vedendolo, leggendo tutte le riviste possibili provenienti da tutto il mondo.
A me piaceva molto leggere le sceneggiature dei film, le pubblicava la Cappelli Editore di Bologna. Quando usciva un film lo vedevo, poi andavo in libreria, comperavo la sceneggiatura, la studiavo, e tornavo a rivedere il film. Ma questo avveniva per passione, non pensavo che sarebbe potuto diventare un mestiere.
Il Cineclub è durato fino agli anni ’70; poi come accade in Italia per tutte le cose intelligenti, anche questa finì, e la Cappelli Editore smise di pubblicare sceneggiatore. Tuttora in Italia non se ne pubblicano ed è più facile trovare la sceneggiatura di “Ladri di biciclette” a Londra che a Roma.
Carlo Mazzacurati cominciò a frequentare il Dams di Bologna, mentre io studiavo storia dell’arte a Padova, continuando comunque a coltivare la mia passione per il cinema vedendolo e leggendolo. Dopo qualche tempo, decidemmo di fare un 16 mm, autofinanziato, per metterci alla prova. Era la stagione di “Io sono un autarchico” di Nanni Moretti, dei Super 8, cominciavano a nascere gli indipendenti.
È stato il primo tentativo di. capire come funzionava il meccanismo del cinema. Naturalmente il prodotto finito era zeppo di errori dovuti all’improvvisazione, ma è stata la nostra palestra. Questo filmino è andato ad un po’ di festival, ricevendo anche dei premi, ed è stato il nostro biglietto da visita presso alcuni addetti ai lavori ai quali piacque e ci consigliarono di trasferirci a Roma se volevamo davvero lavorare nel cinema.
E quindi Mazzacurati ed io siamo emigrati a Roma dal profondo nord, facendo la classica gavetta: miniappartamento pagato in nero, cappuccini e pizza al taglio. A Roma ci sono cento cinema, al ristorante capita di incontrare gli attori, si va alle “prime”, insomma una serie di cose che per uno pazzo di cinema che viene dalla provincia sono come Disneyland. Questa euforia è durata per due o tre anni: il tempo di scoprire la grande città nel bene e nel male, vederla fisicamente; io vivevo in viale Regina Margherita quindi nel quartiere Trieste, tra via Alessandria e la Peroni da una parte e l’Anica e l’Agis dall’altra, e d’estate c’era Massenzio.
È chiaro che per un provinciale era una vera, grande città, in Italia l’unica poiché né Torino né Genova né Milano possono offrire altrettanto; era una continua proposta di spettacoli, proiezioni, incontri, anche di lavori.
All’inizio per sopravvivere, curavo un settimanale di cinema in TV, quello che poi è diventato “Ciak”; scrivevo i press book per la Gaumont, il mio passato di cinefilo, le migliaia di riviste lette, Io rendevano un lavoro adatto a me. Recarsi al Safa Palatino dove c’era la Gaumont, o andare a Cinecittà, vedere la macchina del cinema da vicino, era già emozionante.
Però insieme all’euforia di essere nella “città del Cinema”, coesisteva un disagio di vivere provato sin dall’arrivo a Roma che, purtroppo, coincise con due eventi per me terribili: il primo fu la vittoria dell’Italia ai mondiali di Spagna nell’82.
In quell’occasione vidi scene di delirio che mi ricordarono i film della marcia su Roma, il fascismo, il nazional-populismo; uomini sui camion con le bandiere gridavano, si gettavano con i vestiti nelle fontane, un’orgia collettiva che mi inorridì e spaventò. Il secondo episodio si ripeté l’anno dopo quando la Roma vinse lo scudetto con Falcao, e anche in quell’occasione vidi le stesse scene di follia che mi fecero capire che io con questa città non c’entravo nulla. Ero per dirla con Flaiano, “un marziano a Roma”. Per fortuna per i mondiali ’90 ero in Grecia a girare Mediterraneo.
Il problema di Roma è stato da subito, ed è aumentato nel corso degli anni, la sua totale invivibilità, inciviltà; nelle banalità come l’incapacità di stare in coda per il biglietto, arrivare ad un appuntamento mezz’ora dopo, posteggiare in seconda fila chiudendo a chiave la macchina…il totale menefreghismo per gli altri. La furbizia del piccolo vivere…
È una città faticosa, affollata e sudata; c’è sempre un ingorgo, non solo di traffico, ma anche di gente; l’architettura è incrostata da un insieme di cartellonistica, insegne al neon, illuminazioni stradali sgangherate, buche, lavori in corso, tram deragliati, corsie preferenziali intasate, macchine blu che sfrecciano bloccando il traffico, pullman di pellegrini, un agitarsi infinito ed inconcludente. Forse è per questo che non ho mai scritto un film a Roma, ma tutti lontano, anche dall’Italia.
Per fortuna ci ha pensato Greeneway. Uno dei più bei film fatti su Roma è “Il ventre dell’architetto”; la città è vista con lo sguardo di uno straniero, che l’ha voluta fotografare in maniera esasperatamente artistica. Nella scena del Pantheon non c’erano i bar, non c’erano i ragazzotti col motorino scorreggione, non c’era nulla: la piazza vuota, meravigliosa, con i protagonisti a banchetto davanti alla fontana con la quinta del Pantheon.
Roma può essere bellissima vista a Ferragosto oppure alle 4 del mattino, ma una città è bella se puoi viverci con la gente tutti i giorni.
A Cinecittà ci sono andato per curiosità, uno che fa questo mestiere non può non conoscerla, così come sono andato ai vecchi stabilimenti De Paolis, che ora sono chiusi, e a Dino Città; li ho visitati come luoghi di archeologia industriale. Tutti i luoghi comuni inventati intorno a Cinecittà da Fellini sono assolutamente veri: il reclutatore di comparse, il macchinista “ahó”, il panino imbottito a tre strati con la mortadella, le battute su Lazio-Roma, i ritmi lentissimi, tutto vero. Oggi però Cinecittà ha perso il suo fascino. Nei teatri di posa si fanno i quiz televisivi, per i viali incontri Bando e Corrado. Non si fanno più film, si fa molta televisione. Cinecittà dovrebbe cambiare la sua ragione sociale e chiamarsi più propriamente: Stabilimenti di produzione televisiva.
Il rapporto tra Roma e Cinecittà è molto stretto, ci sono intere generazioni di famiglie che hanno vissuto facendo le comparse, altre che si sono tramandate i mestieri del cinema; per esempio, i truccatori Rocchetti e Carboni, le calzature Pompei. Ci sono artigiani straordinari, tutta una schiera di scenografi, c’è Rancati, il grande deposito di scenografia, che tristemente, pur essendo un’istituzione, sta per essere sfrattato; Cinecittà ha svenduto pezzo per pezzo i suoi terreni ed i suoi studi ai palazzinari o alla televisione. Cinecittà 2 prevedeva un cinema multisala, è stato fatto tutto: fast-food, sale giochi, librerie, ogni tipo di negozi, ma non la multisala.
Non posso parlare dell’ambiente del cinema perché non lo conosco, ne sono estraneo, vivo ai margini, conosco e frequento soltanto degli amici con cui ogni tanto faccio dei film, che prima di tutto sono amici, e poi colleghi.
Tra quello che ho letto ed ho visto, interviste, filmati, documentari ecc.…sicuramente negli anni ’50 e ’60 il cinema occupava un posto centrale nella vita degli italiani, le prime pagine dei quotidiani o dell’Espresso formato lenzuolo, si occupavano di cinema, non di televisione.
Oggi in prima pagina c’è Chiambretti o Baudo. Non c’è Moretti, tranne in rare eccezioni come per il film “Il Portaborse”, ma anche in quel caso il soggetto non era il cinema, ma la politica…
Oggi si consuma televisione, il cinema è diventato arte per pochi. Il cinema una volta era lo svago per definizione, cioè si andava al cinema senza sapere neanche che film facessero: che si fa stasera? si va al cinema; andavi sotto casa oppure in centro, guardavi un cartellone e decidevi se entrare o meno. Invece la mia generazione, quella che ha cominciato a consumare cinema negli anni ’70, era informata. Ricordo di non aver visto un solo film italiano negli ultimi vent’anni, andavo sempre a cercare il film americano indipendente, il film tedesco, il cinema russo quando potevo.
Appartengo a quella fascia di pubblico, molto consistente, che si è formata nei cineclub; esisteva una rete di cineclub in Italia grossissima che ha fatto scoprire Fassbinder, Herzog, Wenders. I cineclub vanno sparendo, a Roma ce n’erano molti e famosissimi, non ne esistono quasi più, sono stati soppiantati dalla Tv che è diventata il grande cineclub della mezzanotte. Questa mutazione è accaduta anche perché non è più possibile reperire certe pellicole, sono andate al macero, non ci sono più i magazzini; un gestore o un distributore non ha più convenienza a tenere un film.
I film hanno una vita brevissima al cinema, quelli che continuano ad essere proiettati nelle seconde visioni, nei cinema all’aperto, durano al massimo un anno; generalmente la vita di un film è di due o tre mesi, nel breve arco di questo tempo si esaurisce tutto lo sfruttamento possibile. La pellicola svanisce, viene trasformata in magnetico, diventa videocassetta e il film da quel momento in poi vivrà unicamente attraverso i passaggi televisivi. Il pubblico da una parte si è sgrossato, i consumatori di Lino Banfi, Pippo Franco, Adriano Celentano, Edwige Fenech, quelle porcherie se le guardano in casa; il rimanente si è frammentato.
Il grosso pubblico è quello dei fine settimana, che scende in massa in centro a divorare i film americani ed italiani, rispettivamente quelli spettacolari e quelli comici; e poi c’è il pubblico più intelligente, più informato, più acculturato che sceglie la sala e il film, per cui un film come “Lanterne rosse” in Italia ha fatto il più grande incasso di tutto il mondo. Altro caso è il “Decalogo”, un successo nonostante fosse un’operazione così difficile: l’Italia è uno dei pochi paesi in cui è uscito integralmente.
Si è formato un pubblico più attentò ed intelligente, che fa sempre più fatica a trovare i film che vorrebbe vedere. Per fortuna ci sono nuovi segnali positivi come l’apertura di piccole sale d’essai come il Greenwich al Testaccio.
Di Roma quello che mi piace veramente è il clima. Si può mangiare all’aperto anche a gennaio, non fa mai freddo; in mezz’ora vai al mare, in tre quarti d’ora in Toscana, in un’ora in Abruzzo. Venendo dalla Padania, di cui comunque amavo moltissimo la nebbia, la neve ed i portici con le caldarroste, è stato particolarmente piacevole trovare questo tipo di clima, di aria, di odori…è una città particolare Roma, i pini marittimi e le palme in pieno centro sono notevoli.
Quello che non mi piace è che purtroppo non è collegata al circuito internazionale della cultura, le vere capitali Parigi, Berlino, Londra, New York, hanno poco in comune con questa città. Quanto al mio lavoro trovo che il ruolo dello sceneggiatore negli ultimi anni è stato un po’ rivalutalo. C’è forse più attenzione grazie anche a certe figure di sceneggiatori emersi attraverso riconoscimenti internazionali. I rapporti all’interno della gerarchia produttiva sono più o meno gli stessi: è la collaborazione il dato fondamentale.
Un buon film nasce soltanto dalla buona collaborazione tra tutti i reparti, e soprattutto dalla buona intesa del nucleo principale, iniziale, che è quello costituito dal regista e dallo sceneggiatore. L’ultima generazione di registi mi piace perché è riuscita a raccontare facce, storie e personaggi nostri, non più macchiette. Quello che le rimprovero è che ci vorrebbe un po’ più di coraggio, un po’ più di decisione, bisognerebbe raccontare storie un po’ più forti. Negli ultimi anni non è venuto fuori il grande film epocale tipo “La dolce vita”: non è venuto né dai nuovi né dai vecchi: quindi è un rimprovero generale che ci riguarda tutti.
Non mi fido dei computer, sono un progressista riluttante, mi piace la macchina da scrivere, mi piace il foglio, mi piacciono anche tutte le penne, le gomme, andare in cartolibreria…si può usare qualsiasi cosa per scrivere, ma l’avvento del computer credo abbia portato, soprattutto in letteratura, ad una forma di scrittura automatica. Psicologicamente accade che siccome nel computer rimane tutto in memoria, si può scrivere senza pensarci tanto, si comincia a battere sui tasti e via. Mentre una pagina scritta ha bisogno di pensieri, riflessioni, correzioni, riscritture, fogli accartocciati e una pagina battuta a macchina o scritta a mano è più pensata, più meditata, più faticata. Questa è una mia. opinione, infatti uno dei capi storici degli sceneggiatori, Age, scrive col computer, e sicuramente non è diventato un altro. Invece la produzione dei giovani scrittori americani, che ormai scrive esclusivamente col computer, sembra sia fatta in serie, le loro produzioni letterarie sono identiche; e anche tra gli scrittori italiani molte cose mi sembrano superficiali, buttate via, o recuperate, tanto c’è il taglia, incolla, cancella, metti in memoria…
Intanto butta dentro tutto, poi appiccicherai, sistemerai…Ho letto che addirittura, non ne ho la certezza, in America c’è un programma di scrittura di sceneggiature con dentro trame, snodi …per cui basta cambiare i nomi dei personaggi, il colore degli occhi e dei capelli, e poi il romanzo o la sceneggiatura è fatta. Non intendo demonizzare lo strumento, ma sicuramente va discusso il modo in cui viene usato e poi credo che rimanga di fondamentale importanza la quantità di cervello che hai tra le orecchie. Io mi sono fermato agli anni ‘70, a me piace il flipper, che ogni tanto fa tilt; non ho mai giocalo con i videogiochi, non mi piacciono, non li capisco; ho comprato il videoregistratore sei mesi fa poiché mi serve per lavoro, non so nulla di queste cose. Spero di continuare a fare il mio lavoro senza cambiare atteggiamento e cioè di fare le cose per passione, non perché mi sono state. commissionate. Vorrei solo riuscire a raccontare storie che oltre me interessino e piacciano anche ad altre persone.
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