Art Brut: vulnerabilità sans titre

DI FRANCESCA GIULIANI


Un guazzo su carta.

Un’inquietante miscellanea di sagome animali e silhouette antropomorfe. 

Lo schieramento opaco di soggetti stilizzati che ricordano il flash sheet di un qualche studio di tatuaggi o la pagina adesivi di un vecchio diario scolastico.

Accanto all’opera, una scheda descrittiva piuttosto lapidaria: «Non si hanno informazioni su questo disegno trovato in un mercatino delle pulci».

Un foglio di carta anonimo, privo di titolo, residuo di un’esperienza di vita sconosciuta, era riuscito a tenermi lì incollata a sviscerarne ogni dettaglio.

È lampante come le opere qualificate come Art Brut – letteralmente «arte grezza» – mettano in discussione la nozione stessa di creazione artistica. Con questo termine, coniato dal pittore e collezionista francese Jean Dubuffet negli anni Quaranta, si fa riferimento ad una produzione estranea alle convenzioni dei movimenti artistici tradizionali, lontana da ogni standard accademico o influenza stilistica istituzionale. È l’arte dei cosiddetti outsider: creatori autodidatta, emarginati sociali, detenuti, pazienti di ospedali psichiatrici o comunque persone con evidenti fragilità psicologiche.

Nonostante quel gouache sia un caso estremo e isolato di completo anonimato, la maggior parte delle opere esposte non possiede un titolo, tant’è che la dicitura «sans titre» diviene presto un familiare leitmotiv delle targhette informative. È un’arte che non si preoccupa di essere riconosciuta come tale, che non ambisce allo spazio espositivo di una mostra, ma non per questo manca di intenzionalità comunicativa.

Epopee celesti, allestita a Villa Medici, è un fortuito crocevia tra gli slanci di ogni singolo doloroso vissuto e la Storia. L’artista outsider sembra vivere nel paradosso di essere e non essere all’interno del proprio tempo – ma proprio in questo loro anacronismo è possibile scorgere la chiave della loro contemporaneità.

Quest’arte marginale – o meglio, marginalizzata – seduce in maniera inconsapevole. Gli artisti esposti presentano come minimo comune denominatore una biografia attraversata da grandi sofferenze e traumi, da perdite mai sanate, da solitudini altisonanti: Achilles Rizzoli trascorre tutta la sua esistenza in completa osmosi con la madre e quando questa viene a mancare la mantiene in vita in una serie di disegni ad inchiostro, trasformandola in cattedrali gotiche di una bellezza e di un rigore geometrico disarmanti; la dipendenza affettiva e sessuale di Aloïse Corbaz trova espressione in voluttuose principesse seminude calate in atmosfere militari e circensi; Henry Darger affida i propri trascorsi traumatici a quindicimila pagine illustrate, nelle quali un’organizzazione per la protezione dell’infanzia combatte un popolo adulto che tortura ed uccide i bambini; la serie infinita di lutti che funestano l’esistenza di Madge Gill si traduce in migliaia di autoritratti, all’interno dei quali il suo volto scarno e assente si ripete in spazi labirintici ed atmosfere orrorifiche alla Junji Itō.

Epopee celesti è un’antologia di nudità psicologiche, da sfogliare con curiosa discrezione: è come avere di fronte a sé delle porte spalancate sul vissuto di ciascun artista, ma sentire comunque il bisogno di bussare per entrare. Ed accorgersi poi che quelle pagine e quelle porte agiscono su noi spettatori come una grande specchiera.

È questo ciò che ho percepito dialogando con i manoscritti del tipografo Zdeněk Košek, il quale, a seguito di un importante trauma psichico, si identifica in una centrale di controllo che ha il compito di ricevere e trasmettere senza sosta centinaia di informazioni. Trascorre le giornate annotando ogni dato su taccuini, riviste, cartine geografiche – dalle condizioni meteorologiche alle candidature politiche – convincendosi di avere un ruolo decisivo nel mantenimento dell’ordine universale. Una psicosi, la sua, in grado di farci riflettere sulla nostra mania di controllo e sulla necessità, in alcuni casi, di una sana deresponsabilizzazione.

Il fascino delle creazioni raccolte nella collezione Decharme risiede nel loro essere espressione di una vulnerabilità tanto genuina quanto irrimediabile. E nel fatto che, fondamentalmente, ci ricordino che tale vulnerabilità umana non ha bisogno di rimedio, ma di ascolto.

Epopee celesti, prima ancora di essere uno spunto di riflessione sul confine tra normalità e patologia, è un cortese invito a prestare ascolto alla fragilità umana, inconsapevole generatrice d’arte.  

Fino al 19 Maggio 2024
Accademia di Francia a Roma – Villa Medici
Epopee Celesti
Collezione: Bruno Decharme
Curatori: Bruno Decharme, Barbara Safarova, Caroline Courrioux, Sam Stourdzé

CREDITI IMMAGINE :
Imagine di copertina: Aloïse Corbaz, Senza titolo, tra il 1940 e il 1950 © Collezione Bruno Decharme
Immagini del catalogo © Daniele Molajoli
Ritratto Bruno Decharme © Decharme
Ritratto Barbara Safarova © Decharme
Anonimo, Senza titolo, Prima metà del XX secolo © Collezione Bruno Decharme
Marie Bodson, Senza titolo, 2020 © Collezione Bruno Decharme
Mose Tolliver, Senza titolo, circa 1970 © Collezione Bruno Decharme
Jean Dubuffet (Italia, 1960) © Paolo Monti

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