ROBERTO CICUTTO racconta gli anni ’90

DI ROBERTO CICUTTO, produttore

Roma, il Cinema ed Io… (appunti di lavoro)  a  cura di Sergio Illuminato, edito nel 1993 dal Quotidiano Paese Sera. Interviste alle principali personalità del mondo del cinema che restituiscono uno spaccato della società degli anni ’90.

Sono veneziano, approdato a Roma con la scusa dell’università, la mia tappa naturale avrebbe dovuto essere l’Ateneo di Padova, mi ricordo che la sera prima della decisione mio padre mi chiese: “allora vai a Padova?” Io risposi: “no, vado a Roma” – “a Roma e perché?” – “perché a Roma c’è il cinema!”. Era la prima volta che lo dicevo non solo a lui ma anche a me stesso.

Alla fine del ’67, entrai all’università, nel momento più caldo del movimento studentesco. Ebbi la. fortuna di incontrare e diventare subito amico di persone legate al cinema come Franco Solinas, Gian Maria Volontè, Giorgio Arlorio. Volevo provare a fare del cinema non solo un mito ma un mestiere, una cosa con cui vivere oltre che divertirmi.

Ricordo che andai da Cristaldi per proporgli il mio assistentato volontario come segretario di produzione era sabato mattina, allora si lavorava anche di sabato, fui messo in un salottino e.… lì dimenticato. Solo alle tre del pomeriggio con l’aiuto di una guardia giurata, riuscì rocambolescamente ad uscire dagli uffici chiusi per il fine settimana scavalcando un cancello.

Non so perché ho pensato subito alla produzione, scrivere no, perché ero convinto di non saperlo fare, così come pensavo di non essere adatto a dirigere. Secondo me avevo le caratteristiche più utili per occuparmi dell’aspetto organizzativo. Ma ciò non toglie che abbia sempre vissuto il lavoro di produzione con una grossa carica creativa, artistica; leggevo dei libri e pensavo che mi sarebbe piaciuto farne film.

Quindi oggi posso affermare con certezza che è semplicemente il mestiere che ho scelto di fare.

Cerco di seguire ogni momento di un film dalla nascita in poi, anche se è sempre più difficile; sempre più spesso accade che i lavori si accavallino e che si abbia bisogno di relazioni, rapporti, strategie diverse per la copertura finanziaria di ogni diverso progetto, e questo rende difficile partecipare alla vita interna del film.

Col tempo ho imparato che uno dei momenti fondamentali nel mio lavoro è quello della preparazione della sceneggiatura, da vivere in grande accordo con la regia. Bisogna fare un lavoro di comprensione del progetto con il regista, perché se si parte con delle idee diverse rispetto a quello che sì va a fare sono guai, se si parte con la stessa idea si può anche sbagliare, ma non ci si pente poi di averlo fatto.

Credo che le origini di Cinecittà siano legate ad un evento politico molto romano; era diventata uno degli strumenti di divulgazione del fascismo, quindi è molto legata a Roma, al senso della capitale, al divismo, penso che difficilmente sarebbe potuta nascere, così com’è, da qualche altra parte.

Cinecittà ho cominciato a frequentarla facendo la comparsa in un film del quale non ricordo più né il titolo né chi fosse il regista; ricordo però che mi avevano dipinto la faccia di scuro, affinché. fossi più credibile come peone, il protagonista era Yul Brynner; mi infilò lì dentro il direttore di produzione che era mio amico e passai così alcune giornate nei teatri di posa.
In seguito, a cominciare dal ruolo di segretario di produzione, ho avuto ed ho tuttora molti ed ottimi rapporti con la gente di Cinecittà, al punto che quando mi capita di tornarci, magari accompagnato da un produttore straniero, mi salutano dandomi una pacca sulla spalla e trattandomi esattamente come vent’anni prima, ignorando i miei occhi sbarrati e rendendo vano ogni tentativo di darmi tono.

Ma in realtà la cosa mi fa molto piacere perché mi sento a casa.

Frattanto Cinecittà è cambiata, prima quando la si pensava era per grandi progetti, i film di Fellini per intenderci. Era un posto dove tutta la macchina del cinema, viveva il suo momento di massima espressione. Oggi accade sempre meno. Ormai Cinecittà viene usata molto al di sotto delle sue risorse. Gli altri studi televisivi hanno subito sorti ancora più tristi; la De Paolis ha chiuso, la Elios si occupa quasi esclusivamente di produzioni televisive, la Dear è stata completamente trasformata in teatro televisivo.

Cinecittà è rimasta stabilimento ancora adatto a far cinema, lì volendo si può girare, noleggiare i mezzi tecnici, sviluppare, stampare e sonorizzare un film.

Io ho avuto la fortuna lo scorso anno di utilizzarla al massimo, ho lavorato al teatro 5, il mitico teatro di Fellini. Abbiamo coprodotto un film per la televisione che prevedeva anche una versione cinematografica con la R.C.S. e la TV francese, il film è stato tratto da un romanzo di Benott “L’Atlantide”. Ed in questa occasione ci siamo sbizzarriti a ricostruire il mitico luogo di Atlantide e quindi abbiamo visto di fatto che potenziale può avere Cinecittà.

Per quanto riguarda Roma devo dire che il rapporto con la città è stato ottimo, ed ha coinciso con un cambiamento radicale della mia vita: da giovane adolescente veneziano, quindi con tutto il fascino ma anche il provincialismo di Venezia, mi sono trovato in una città dove frequentavi l’università, dove facevo politica, altro grande cambiamento, dove si paventava l’idea di dover affrontare un discorso lavorativo in termini veri e non solo di desiderio, quindi ha rappresentato una specie di shock, che invece di avere un effetto negativo è stato una scarica di energia che mi ha fatto benissimo; quindi sono riconoscente a Roma e alle persone che mi ha fato incontrare e che mi hanno aiutato a conoscerla nel suo aspetto migliore.

Sono stato fortunato. Penso che Roma non sia consumata cinematograficamente, nel senso che si può anche girare, in piazza San Pietro, dipende però da quello che si racconta, e da come lo si racconta. Io credo che sia filmabilissima e che possa, a seconda della sensibilità del regista, continuare a stupire. Ho visto di recente una mostra della pittrice Graziolina Rotunno, moglie del bravissimo direttore della fotografia; generalmente lei ha sempre dipinto quadri di ambientazione naturalistica: campagne, spighe di grano, mentre invece in questa mostra ha ritratto Roma. Al primo impatto la mostra poteva non identificarsi con la città, invece poi, erano riconoscibili certi quartieri, i Prati, l’Aventino, quei quartieri che hanno una geometria diversa dal caos urbanistico del centro storico, ed in quei quadri era rappresentata una Roma fuori dall’iconografia classica, ma era comunque Roma ed era altrettanto affascinante.

Lavorare in esterni è problematico come lo è in molte altre città: la difficoltà di ricostruire situazioni da cui il traffico debba essere escluso, sia dal campo sonoro oltre che dal campo visivo. A Roma esiste, più che in altre città, una confusione amministrativa ormai cronica: ordinanze e contro ordinanze che vietano, permettono, e poi rivietano l’uso dei gruppi elettrogeni in alcune aree del centro storico. Alcuni di questi divieti sono giustificati altri no, oggi le tecniche moderne consentono di usare strumentazioni tali che non mettono, in pericolo nulla e nessuno.

Avendo girato anche in alcune grandi capitali dell’estero posso dire che da noi non si sono ancora, come in molti altri settori, trovate soluzioni ottimali; per esempio, a Parigi, se si vuole svuotare una strada dalle macchine, ci sono delle società che forniscono delle cosiddette: “voiture venteuse” che un giorno prima delle riprese occupano l’area da utilizzare, e al momento opportuno vengono spostate lasciando così la strada sgombra.

Ci stiamo accorgendo oggi in ritardo, e quindi ne stiamo pagando il costo, di un’organizzazione del mercato caotica che ha consentito ad alcuni di occupare posizioni dominanti e mettere molti nella sola condizione di prenderne atto, farci i conti senza potersi opporre. Questo è il vero grosso problema della nostra attività; magari il cinema fosse una enorme bottega artigiana bene organizzata all’interno di un progetto, sarebbe una cosa positiva, laddove per artigianato. s’intende il rapporto con il prodotto, cioè la scelta e la cura delle cose che si fanno.

Per anni non si è pensato che oltre ai soldi investiti in un prodotto, senza nemmeno occuparsi troppo di quanto e come avrebbe funzionato, bisognava occuparsi della formazione dei quadri, della progettazione, premesse necessarie per il funzionamento di qualsiasi piccola o grande industria.

Non dico di arrivare ad avere sotto contratto schiere di sceneggiatori come fanno le Majors americane, però è vero che solo oggi si leggono articoli sui giornali in cui ci si accorge, con stupore, che è tornato di “moda” lo sceneggiatore, si riconosce cioè una professionalità a delle persone di fondamentale importanza che forniscono le storie da raccontare ai registi.

Essere produttori indipendenti; questa specificazione fino a qualche tempo fa non aveva senso, indipendenti da chi e da cosa?

Prima esistevano i produttori più potenti, più ricchi e quelli meno forti ma tutti erano in grado di produrre. Man mano le cose sono cambiate, ci si è accorti che il mercato imponeva la distinzione; abbiamo capito che “indipendente” è quel produttore che agisce per proprio conto, che ha una società con capitale italiano e che al suo interno non ha nessun partner televisivo. Per esempio, è indipendente De Laurentiis, non lo è la Penta perché avendo al 50% Berlusconi come partner, con una mano compra e produce, e con l’altra autovende i suoi prodotti. È indipendente anche chi fa i film con i soldi della RAI o con i soldi della Fininvest, purché avvenga una cessione di diritti precisi, a fronte dei quali quei signori possono trasmettere film in televisione nei tempi consentiti.
Che spazi ci siamo ritagliati? Pochi, quando faccio un film importante devo coprodurlo con la Penta altrimenti non ho la possibilità di finanziarlo; il film fatto con Ermanno Olmi “Il segreto del bosco vecchio” che ha un budget a copia campione di quasi 9 miliardi, o lo facevo con loro o non potevo farlo; non solo, ma al di là della produzione c’è il discorso distributivo e dell’esercizio; quantunque volessi distribuire, oltre che produrre un film così costoso, potrei farlo con le due sale che posseggo più qualche altra saletta elemosinata qui e là sul territorio nazionale? Impensabile.
Se ho investito tutti quei soldi devo uscire almeno con 150 copie e non posso che accedere alle sale di Cinema 5, cioè a quelle della Penta. È il cane che si morde la coda.

Ci sono delle esperienze che ho fatto in maniera autarchica, ma erano altre cifre; per esempio, “Alambrado” girato in Argentina, con una produzione locale ed il concorso di RaiTre, è stato un film che mi sono prodotto e distribuito. Lo stesso accadrà ora con un altro film che stiamo girando sempre in Argentina, protagonista Mastroianni e regista M. L. Bémber, dove non c’è nemmeno una prevendita televisiva, però sto parlando di budget da 2-3 miliardi. Ma anche queste operazioni oggi sono rese più difficili dall’aumento del costo del denaro.

C’è comunque la volontà non solo mia di fare le cose da soli, se le cifre lo consentono, che non vuol dire fare la mini-concentrazione rispetto alla grande concentrazione dei Cecchi Gori; l’idea di produrre un film, distribuirlo, magari avere la sala che lo difende finché si fa un po’ conoscere, è proprio il contrario della concentrazione. Sono piccoli numeri a difesa del prodotto.
Al contrario per loro sono grandi numeri ed ogni prodotto che passa è un problema in meno da risolvere.

È sicuramente in atto un contrasto; lo dico anche ai Cecchi Gori, a Bernasconi con cui ho ottimi rapporti, io con voi sono costretto a lavorare; è una brutta situazione che hanno creato, una condizione di non libertà di mercato; certo lutto ciò è avvenuto con la complicità e la leggerezza di tutti; fatto sta che non credo esista nessun altro settore della produzione in Italia con così stretti margini di libertà.

I film si fanno solo se in teoria vengono voluti da uno o dall’altro gruppo, non ci sono interlocutori, non ci sono possibilità di imprendere. Ma nonostante tutto sono ottimista, penso che le cose andranno meglio, le ristrettezze economiche, le difficoltà ultime, faranno recuperare a coloro che lavorano nel cinema e per il cinema e per i quali il cinema non è una tra le attività, un più diretto rapporto con il prodotto, si tornerà alle origini, al senso che doveva avere e che ha il ruolo del produttore, del regista e dello sceneggiatore, ci sarà più professionalità. Agnes Varda, di cui ho distribuito un film l’anno scorso, diceva, commentando alcune scene in cui un bambino inventava dei giochi, che la povertà aguzza l’ingegno. Probabilmente bisogna semplicemente accettare che oggi il cinema non consente le cifre di una volta, bisogna adeguarsi a costi minori; ciò significa che ci dovranno sempre essere, e sono la ragione per cui si fa questo mestiere, dei prototipi con budget e storie diverse; la serialità rimarrà prerogativa della televisione; e le sale verranno utilizzate in maniera migliore, cioè diversificando il prodotto.

Ed a proposito delle sale posso dire che le ristrutturazioni sono importantissime e mi sembra che bene o male tutte le nuove iniziative siano affrontate seriamente, non con la romanella, cioè una spolverata di vernice e via. È aumentata la gente che va a vedere il cinema di qualità, penalizzata però dall’assenza di schermi che possono mantenere un tipo di programmazione diversa dal prodotto di massa. Sicuramente il pubblico è più attento, sceglie, non casca dentro una sala, a meno che non vada a finire dentro gli enormi contenitori che arrivano dall’America, film spettacolari, alcuni bellissimi ed inimitabili.

C’è all’interno del pubblico una differenziazione ed anche una trasmigrazione, cioè chi va a vedere il “Decalogo” di Kieslowski, va a vedere anche Batman, non va forse a vedere” Anni 90”, ma se il cinema è fatto bene non vuol dire che quello di intrattenimento venga scartato da chi vuole un cinema di contenuti.
Secondo me si può senza dubbio affermare che il pubblico è cresciuto più dell’offerta.

Il cinema incide poco sul sociale, però credo che sia diventato una specie di laboratorio di ricerca, spesso viene utilizzato male, in termini di scoop giornalistici, ma forse ci sono altre cose più importanti da dire, forse la stampa ha un atteggiamento superficiali rispetto al cinema, è più interessante occuparsi della vita privata degli attori, la Stampa apre il suo inserto con la televisione, e non capisco più all’interno dell’inserto cultura e spettacolo del Corriere della Sera dove sono le critiche.

Credo che quello che a noi manchi sia proprio una politica di progettualità della cultura, non il gestire il contingente giorno per giorno, alla ricerca affannosa dei contributi per far sopravvivere quel teatro, quella compagnia.

Ci mancano anche i cavalli di battaglia, i francesi per esempio hanno fatto delle grandi battaglie per difendere la loro lingua, ne hanno fatto un veicolo per lo sviluppo della loro cultura, la promozione del cinema francese nel mondo è fatta solo attraverso il discorso della difesa della lingua, noi non difendiamo neanche questo.

Per quanto riguarda lo scambio culturale interno alla città, c’è una piccola ripresa, io stesso sono impegnato con un gruppo di persone che si va sempre più ampliando in un discorso interdisciplinare: cinema, editori; giornalisti, musicisti… L’Associazione denominata “Forum” vuole essere soprattutto un momento di partecipazione, a titolo individuale, ad una discussione sulla cultura e sulla politica culturale.

Spero in una sua uscita pubblica entro pochi mesi, con l’augurio che diventi un referente per chi ha delle proposte concrete, un piano volto a rendere questo paese degno di una politica culturale moderna ed efficace.

Spero di continuare a divertirmi, nel bene o nel male, facendo il mio lavoro; non ha senso farlo se non se ne trae piacere, piacere dal rapporto con le persone che s’incontrano, dai luoghi che probabilmente non si vedrebbero o si vedrebbero in un altro modo, dal piacere d’inventarsi ogni volta un mondo che ha un inizio ed una fine; ogni film asciuga, assorbe tutte le energie, poi finisce e se ne fa un altro.

Dei nuovi registi penso che siano migliori di quanto si è detto di loro. Anche in questo caso l’atteggiamento scoopistico della stampa non li ha aiutati portandoli dalle stelle alle stalle; lavorano in condizioni difficilissime, pur di fare un film lavorano con non importa chi: produttori inventati, soldi autogestiti… a parte queste disfunzioni organizzative io sono assolutamente favorevole, tra loro ci sono persone con più talento altre con meno talento, credo che alcuni siano stati spiazzati dal malcostume seriale ora del filone neo-neorealista ora di quello neo-neominimalista. Sicuramente almeno i due terzi dei registi che negli ultimi anni si sono cimentati nel cinema, andrebbero per la potenzialità espressa messi in condizioni migliori per lavorare.

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