DI LINA WERTMULLER, regista.
Roma, il Cinema ed Io… (appunti di lavoro) a cura di Sergio Illuminato, edito nel 1993 dal Quotidiano Paese Sera. Interviste alle principali personalità del mondo del cinema che restituiscono uno spaccato della società degli anni ’90.
Quando viaggiavo per fare dei sopralluoghi con Tonino Delli Colli che so, in America, in Germania, in posti lontanissimi, dovunque arrivassimo lui diceva: “Embè? Perché siamo arrivati fino a qui? a Roma dietro l’Acqua Brulicante è uguale!”. Sosteneva che a Roma c’era tutto, e in fondo aveva ragione. Così come ha ragione Fellini che ha deciso da sempre di lavorare solo ed esclusivamente a Roma.
È vero, cercando bene a Roma, quando la si conosce e la si ama, si trovano centomila città, luoghi diversi, campagne, deserti, lune, cieli, metropoli, atmosfere, angoli e spazi. E poi Roma è Cinema, non solo per l’Italia ma un po’ per tutta l’Europa. Di tante male cose che fece Benitone Dux, Cinecittà fu di certo fra le poche buone una delle migliori sotto tutti i punti di vista.
Lui amava il cinema, ci credeva e fece progettare fa città del cinema: Cinecittà, l’Istituto Luce, il Centro Sperimentale di Cinematografia, cineteca e spazi, studi, luoghi. Lo fece seriamente, e di questo noi gente del cinema, gli dobbiamo essere grati.
Cinecittà rimane uno dei più bei stabilimenti del mondo. Io ho girato a Cinecittà parecchi dei miei film, fin dal ’64-’65 quando con Nino Manfredi realizzai il suo secondo film: “Questa volta parliamo di uomini”, ben ventisette anni fa. Sono legatissima a Cinecittà, alle sue pietre, alle sue belle architetture, ai pini mediterranei, agli odori profumati delle erbe romane, al vento ponentino, che scivola profumato di mare intorno agli studi, alle brune acque, a certi funghi che i vecchi macchinisti trovano dopo la pioggia, ai ricordi delle tante avventure, alla “stozza del macchinista” cibo magnifico, ancora del tempo di quando le mogli la sera prima friggevano fettine “panate e fritte” con carciofi e spinaci e facevano con questo un pagnottone di pane oblungo, del quale lavoravano la mollica, poi gli davano una bella “rincarcata” e lo impacchettavano dalla sera prima, così che il giorno dopo era tutto intriso di odori e sapori, e tante altre cose.
Quando una dozzina di anni fa si cominciò a ventilare la rovinosa teoria della vendita di parte del terreno di proprietà degli stabilimenti, per pagare i debiti, io mi arrabbiai moltissimo, era un’azione politica criminale, impapocchiata, anticulturale e traditrice. Cercai insieme ad altri autori di smuovere tutti coloro, potenti, politici, che avrebbero potuto evitare questo abominio.
Invece tutto il peggio successe regolarmente. Per dar vita poi a cosa? Ad un gran magazzino “comprami comprami”. Che gli frega ai potenti della politica italiana del cinema! Ci battemmo come tigri. Ed io insieme a Caterina d’Amico, da quando ci occupiamo del Centro Sperimentale di Cinematografia, stiamo cercando di far ragionare i politici, malgrado tutti i più biechi e fetenti interessi di merda che ci sono naturalmente su quei terreni, sull’importanza di riportare la città del cinema alla sua primitiva sacrosanta funzione, e difenderla ormai inglobando anche Cinecittà 2 con il suo market.
Secondo me, loro, i politici, con la solita miopia, pensano che il cinema è morto: che sciocchezza! Il cinema è solo un bambino, la civiltà dell’immagine è solo agli inizi; cambieranno i sistemi, le formule, le strutture, ma la civiltà dell’immagine è ancora tutta da crescere. Di conseguenza Cinecittà, luogo storico, fondamentale, centrale, è da salvare con tutto il suo primitivo peso di città del cinema insieme all’area che comprende il Centro Sperimentale di Cinematografia, l’Istituto Luce e la SPES, invece che svenderlo. Comunque, è meglio che io chiuda il vaso delle lamentazioni e dell’indignazione nei confronti dei programmi, delle strutture, e dei piani della nostra miope classe politica.
Il cinema è la mia vita! Potrei parlare giorni e giorni di Cinecittà, del Centro Sperimentale di Cinematografia, della città del cinema, delle sale cinematografiche, dell’esercizio, delle sale, delle multisale, e di tutti gli argomenti intorno ai problemi e alla vita del cinema. Aimè, bisogna ammettere che nel passato quando avremmo potuto occuparcene meglio, dato che le cose andavano bene, ce ne siamo occupati male. Adesso il cinema non fa più paura ad una certa classe politica.
Ha perso valore nel momento in cui ha fatto il suo ingresso sculettante, la Televisione. Dietro a quel sederino ancheggiante si sono precipitati tutti gli interessati in vista dei voti che da lì sarebbero potuti scaturire. Per questo al palazzo importa pochissimo dell’attuale situazione del cinema.
Attualmente viviamo un momento di cambiamento, forse di catastrofe. Il cinema delle sale serve una piccola percentuale di pubblico, le grandi quantità finiscono col vedere film che offre la televisione. Forse sarà un fenomeno di passaggio, che presto verrà oscurato dalla luce di chissà quali cambiamenti tecnologici.
Quel che è certo è che quando si parla di crisi finale del cinema, di morte imminente, ci si sbaglia! Sono malattie di crescita, il cinema è solo un bambino, la lunga era della civiltà dell’immagine è appena iniziata ed ha una sua importante tradizione artigiana: registi, operatori., montatori, scenografi, musicisti, macchinisti, elettricisti e tutti gli altri collaboratori.
L’artigianato è l’anima segreta del cinema. Artigianato – la radice è arte -. Sono bellissimi i nostri artigiani; quando li vedo passare nei viali di Cinecittà mi sembrano proprio dei “miles” romani. Si passano la loro arte di padre in figlio e di figlio in nipote. Sono tribù, famiglie, grandi famiglie di macchinisti, elettricisti e tecnici.
Così dovevano essere le legioni romane nell’antichità della repubblica e dell’impero: efficientissime macchine da guerra che riuscivano ad organizzarsi molto bene in qualunque situazione, in qualunque clima, ma che si distinguevano anche per essere una macchina di pace rispettosa della cultura e della religione che trovava nei luoghi dove arrivava.
Ed è la stessa straordinaria capacità di. adattamento, l’arte di sapersi muovere in gruppo, la qualità di capirsi con un’occhiata, e la velocità, il rispetto, l’amore, la passione che hanno le maestranze romane che operano per il cinema a Cinecittà.
Della famiglia del cinema non posso che dire bene: è la mia; mentre purtroppo non posso parlare bene di come vanno le cose per il prodotto cinematografico italiano. Tutti i nostri autori dovrebbero essere messi in condizione di lavorare di più. I serial televisivi hanno usurpato gli spazi produttivi del cinema. Insomma, invece che tendere verso la qualità, quella qualità che il mondo ha apprezzato sempre nel nostro cinema, tutto tende verso il basso. E non parlo solo di soldi, il cinema vive soprattutto della qualità umana di chi lo fa: autori, registi, attori e maestranze.
E sempre a proposito della qualità, un’altra triste considerazione va inevitabilmente rivolta al nostro esercizio che ha spesso danneggiato la situazione. Basta entrare in un cinema per accorgersi di come sotto cambiate le cose, le sale sono spesso inospitali, vecchie, inadeguate tecnicamente. Molta gente quindi preferisce vedere del buon vecchio cinema alla televisione oppure con delle pessime video-cassette pirata pur di non frequentare sale così malridotte. E siccome la maggior parte del pubblico che le frequenta è costituita da ragazzi, si preme il pedale sul peggio sicuri dell’attrazione dei film di violenza, di basso segno, o dalle mega produzioni americane. Noi dovremmo riuscire a riconquistare il nostro pubblico! Non facile impresa.
Negli anni ’60, pur avendo nel nostro ventaglio dei prodotti cinematografici spesso privilegiato lo spettacolo popolare, si faceva molta più cultura cinematografica di oggi, questo è sicuro. Ormai in Italia si spende una cifra allucinante in convegni, in tavole rotonde, in signori, tra i quali ci sono anch’io, che viaggiano e che costano soldi tra festival e hotel al fine di creare un collegamento tra le culture europee e mondiali. Invece forse la cultura segue sue strade misteriose. In questo momento quanti uomini sconosciuti, nel silenzio della loro cameretta, stanno forse facendo cultura senza saperlo, disegnando, scrivendo, pitturando, fischiando o forse preparando un film…È vero, preferirei meno festival, convegni e tavole rotonde e più soldi per fare film.
Roma non è Parigi, dove il potere ha sempre fatto della cultura una missione, una grande operazione, ed anche un grande affare economico. Da noi la cultura è da sempre considerata dai politici un peso, una cosa parassitaria, un fronzolo, un fiorellino da mettersi all’occhiello in vista delle elezioni.
La cultura è tutt’altra cosa: è una fondamentale strada del genere umano, è una delle poche speranze serie di miglioramento della civiltà ed è anche l’immagine di un paese, molto più rappresentativa di un paio di scarpe o di un’automobile. E nel percorso di questa strada maestra si dovrebbe poter comunicare, incontrarsi, al di là delle tavole rotonde. Ogni tanto qualche sociologo od operatore culturale si batte per dar vita a luoghi d’incontro, di scambio, riuscendo talvolta anche ad ottenere risultati positivi come è accaduto per l’iniziativa del Palazzo delle Esposizioni, dove è stato creato un minicentro culturale abbastanza attivo, ma certamente siamo lontani dall’avere il Beaubourg che invece a Roma ci starebbe bene. Comunque, restano sporadiche iniziative culturali, prive di una seria progettazione, ma ripeto il nostro è un paese che ha dimenticato cos’è la cultura. Quanto sono colti i nostri politici? E che peso ha la cultura nell’amministrazione del nostro paese? Boh!