Artemisia Gentileschi, Susanna e i Vecchioni (in ordine: 1610, 1622, 1649 e 1652)
Se mettiamo l’uno accanto all’altro i dipinti che rappresentano la vicenda di Susanna e i Vecchioni che la nostra arte occidentale ha tanto amato e rappresentato, ci possiamo rendere conto, con un po’ di buon cuore, che i punti di vista, quelli esaltati e legittimati nella nostra epoca a discapito di un’unica Verità, sono importanti ma non valgono poi così tanto.
La storia è raccontata nel tredicesimo capitolo del libro di Daniele. Per i cristiani fa parte dei libri deuterocanonici, ovvero accettati dalla chiesa latina e greca ma non integralmente da quella protestante e anglicana.
Parliamo di un episodio curioso perché in fin dei conti è la storia di tutte le donne. Si narra di Susanna, donna bellissima, moglie di Ioakìm e figlia di Chelkia, che viene sorpresa nuda in giardino a fare il bagno da due giudici anziani della comunità ebraica, i quali la minacciano: se non si concede loro la accuseranno di adulterio. Lei si rifiuta e viene portata in tribunale e quasi condannata a morte.
Ma Daniele, ancora giovanetto e non profeta, dice queste parole: «Siete così stolti, Israeliti? Avete condannato a morte una figlia d’Israele senza indagare la verità! Tornate al tribunale, perché costoro hanno deposto il falso contro di lei».
Prendiamo con noi la parola “Verità”. Questa scena è stata dipinta dai più grandi pittori di tutti i tempi. Tintoretto ha raccontato Susanna splendida e voluttuosa. Il Caravaggio le ha dato un’aria cortese. Francesco Hayez l’ha fatta seducente, Rembrandt sorpresa. Rubens bellissima e terrorizzata, Vincent Sellaer quasi compiaciuta. Tutti hanno dipinto Susanna e i vecchioni perché era un affascinante nudo biblico. Picasso l’ha persino adagiata spezzettata su un moderno letto.
Ma nessuno è riuscito a raccontare Susanna vera. Tutti tranne Artemisia Gentileschi. E lei è stata più capace degli altri perché era Susanna: non ha fatto calcoli mentali, né addizioni, né ha emesso giudizi. Semplicemente era ciò che raccontava. Sentiva. Esisteva. In lei empatia, compassione.
L’ha dipinta con dolore, prima o dopo di decidere di andare a denunciare le violenze subite dal suo “vecchione”, il maestro di prospettiva Agostino Tassi. La immaginiamo tenere il pennello tra l’indice e il medio perché i pollici glieli schiacciarono durante il processo. In tribunale, per capire se stesse mentendo o meno, fu costretta a subire delle torture. Ma lei, che amava la verità e non i punti di vista, non cedette, e anzi, lo urlò ancor più convinta, che quel maestro, Agostino Tassi, non l’aveva rispettata. Artemisia era disgustata come Susanna. Artemisia era Susanna. E così la dipinse più vera di tutti.
Difese la sua verità nonostante suo padre Orazio le chiedesse di tacere per conservare l’onore; nonostante quel maestro le strappasse i pennelli dalle mani per la rabbia; nonostante il giudizio di tutti, quello più comodo, e cioè che lei era la colpevole, così come stava per stabilire il Tribunale con Susanna.
Vi chiederete cosa c’entri questa storia con la bellezza? Molto più di quanto possiamo immaginare. Quello di Gentileschi è effettivamente il dipinto “più bello” perché il suo è un racconto autentico: l’essere coincide con l’essere. È verità, per quanto sia dolorosa quando delle corde ti spezzano le dita. E noi non dovremmo chiuderci, per non sentire quel dolore, ma vibrare come Artemisia e immaginarne le lacrime. Questo capita se si va a fondo e non ci si accontenta di stare in superficie.
Nell’autenticità del dipinto della Gentileschi troviamo quella bellezza che ci fa commuovere perché ci fa trascendere il fatto in sé portandoci a una dimensione del “sentire”: non stiamo su noi stessi, sul nostro punto di vista, ma diventiamo l’altro. Non siamo più spettatori con i nostri giudizi, ma siamo l’altro. Un miracolo universale.