(Estratti selezionati dall’autore, tratti dal catalogo dell’esposizione)
Riccardo Venturi, Critico e storico d’arte moderna e contemporanea
“Con la pelle sulla pelle. Raffigurare il dramma umano” Rothko, un ricordo d’infanzia e la preoccupazione della morte
All’inizio c’è un ricordo – è difficile dire quanto sia veritiero – che lega l’infanzia di Markus Rotkovitch (1903-1970) alla sua pittura. È un ricordo che l’amico pittore Alfred Jensen racconta così: “I cosacchi presero gli ebrei del loro villaggio e li portarono nel bosco dove dovettero scavare una grande fossa. Rothko raccontava di aver dipinto questa fossa quadrata nel bosco così vividamente che non era più sicuro se il massacro fosse avvenuto mentre era ancora in vita. Diceva che era sempre stato tormentato dall’immagine di quella fossa, e che in qualche modo era intrappolato nel suo dipinto.”
Nella sua conferenza del novembre 1958 al Pratt Institute, elencando ironicamente gli ingredienti necessari per un buon dipinto, Rothko menziona “una chiara preoccupazione per la morte – premonizioni della propria mortalità”. La centralità di questa preoccupazione viene confermata dalla risposta di Rothko all’attore e regista John Huston, che, all’epoca della cappella di Houston, gli chiese cosa stesse dipingendo: “l’infinità della morte”, specificando successivamente: “l’eternità infinita della morte”.
[…] durante il periodo chiamato classico, confessa a Dore Ashton “di fare la pittura più violenta d’America”. A coloro che cercano o trovano serenità nei suoi dipinti, risponde: “Vorrei dire che hanno trovato sopportabile per la vita umana l’estrema violenza che permea ogni centimetro quadrato della loro superficie.” Nel 1954, si legge in un taccuino: “Il fondo delle mie immagini è la violenza – e l’unico equilibrio ammissibile è il precario prima dell’istante del disastro… Sono (quindi) sempre sorpreso di sentire che le mie immagini sono pacifiche. Mostrano uno strappo. Sono nate nella violenza.” Rothko fa qui riferimento a uno stato precedente del suo dipinto, come se si fosse fermato un istante prima del disastro, ammortizzato e filtrato dalle bande di colore. Questo è suggerito da una dichiarazione del 1959 in cui va dritto al punto: “Guardate ancora. Sono [l’artista] più violento di tutti i nuovi americani. Dietro il colore c’è il cataclisma.”
[…] Rothko non pretende di trarre ispirazione da un ricordo d’infanzia per creare i suoi dipinti. In modo più sottile, è tormentato da questo ricordo mentre specifica che non è sicuro di aver assistito al terribile evento e che, vissuta o ricostruita in seguito, questa storia si è insediata nelle sue superfici colorate e astratte. Ciò che interessa davvero Rothko – l’uomo e l’artista, se è possibile separarli -, ciò che vuole dipingere e trasmettere agli altri, è il dramma umano. È una preoccupazione che attraversa tutta la sua opera e che – espressa da un dipinto liberato dal cavalletto e, a partire dalla fine degli anni ’40, esclusivamente dall’astrazione – rimane difficile da formulare a parole.
Dinanzi a questo ambizioso programma artistico, in un periodo della storia e in una parte del mondo occidentale che hanno visto l’apice dell’astrazione pittorica, la questione della sua realizzazione resta aperta. Come trasmettere, con i mezzi della pittura non figurativa, il dramma umano nei suoi aspetti più violenti, nelle sue manifestazioni più traumatiche, vissute o fabbricate come ricordo?
[…] Questo è il punto di svolta di fronte all’opera di Rothko: o si riconosce in questi dipinti il potere di trasmettere emozioni senza forma, di farcele vivere alla Rothko […]; oppure, al contrario, li si considera il risultato, per quanto brillante, di una convinzione fulminea e ostinata nell’analizzare con gli strumenti della storia dell’arte americana del dopoguerra.
Sentire la presenza
Può sorprendere, ma persino un’artista che non si assocerebbe mai all’universo di Rothko come la performer Marina Abramović ha lasciato un testimonianza sensibile della sua pittura: “Quando vedi un quadro di Rothko, potresti non sapere nemmeno di quali colori sia composto, ma non appena ti trovi davanti a lui, agisce in un modo che non puoi definire razionalmente. Una buona opera d’arte dovrebbe farti voltare anche se non la stai guardando, allo stesso modo in cui puoi sentire che qualcuno ti sta guardando quando sei seduto in un ristorante. Non sei sicuro, ma ti giri e c’è davvero qualcuno. Questa energia è davvero al di là delle culture…”
[…] Nel 1999, Abramović visita una mostra di Rothko e Pollock a New York. Quello che la colpisce è la visione simultanea di un insieme del primo: “Ho trovato che fosse un artista completo. Fin dall’inizio, ha esplorato diversi stati di coscienza. Era così luminoso. È stata un’esperienza spirituale così forte vedere la progressione di questo lavoro fino alla sua realizzazione nell’oscurità. È stata una sorta di realizzazione. Vedi come arriva la fine della vita e tutto quello che ha attraversato. Come artista, devi sapere come vivere, come morire e quando smettere di lavorare.”
Come vivere e come morire: al di là delle sensibilità, a volte le arti visive mettono in immagini il dramma dell’esistenza umana. L’opera di Rothko forse si avvicina a La Tempesta di Shakespeare, non in riferimento a un personaggio particolare ma, secondo il filosofo Richard Wollheim, a quella “forma di sofferenza e dolore, e in qualche modo, appena o fragilmente contenuti” che attraversa l’opera.
“La Nascita della tragedia rifatta da Renoir”: la battuta con cui T. J. Clark condensa l’opera di Rothko in una sola formula si rivela ingannevole. Per accorgersene c’è solo un modo, ambito dall’artista per tutta la sua carriera e la sua esistenza: fare esperienza diretta della sua pittura. Solo così possiamo cogliere il dramma umano e renderci conto che, sì, forse ci troviamo di fronte a La Nascita della tragedia, ma dipinta da Rothko. Lui solo, nessun altro, avrebbe potuto dipingerla in questo modo.